Visioni d'insieme

World Press Photo, Faccilongo vince con Habibi

World Press Photo, Faccilongo vince con Habibi

Amore mio supera i confini di queste mura, fammi sentire oltre il vetro il calore del tuo corpo, l’odore della tua pelle.

Habibi è il racconto di una storia di amore in immagini. Il reportage del fotografo documentarista barese Antonio Faccilongo, insignito del primo premio come storia dell’anno 2021 dal World Press Photo.

Per realizzarlo ha a lungo viaggiato in Medio Oriente raccontando con i suoi scatti le conseguenze del conflitto israelo-palestinese nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania.

Habibi, amore mio in arabo, narra la storia che unisce le moglie dei priginioneri palestinesi e i lori mariti. Famiglie che per non cedere alle barbarie continuano a portare avanti il sogno di una famiglia unita, rivolgendosi al contrabbando di sperma per concepire i loro figli.

I mariti reclusi nelle carceri israeliane sono considerati martiri viventi immolati per una patria negata, per questo in Cisgiordania la fecondazione in vitro è offerta gratuitamente a queste donne che consumano le loro vite sospese in una attesa perenne, dove l’unico contatto con i mariti è attraverso un vetro e solo ai bambini sono concessi 10 minuti per abbracciare i loro genitori. Ed è quello il momento in cui nel tubo di una penna o in una barretta di cioccolato viene contrabbandato lo sperma.

Faccilongo con le sue immagini ha raccontato la loro storia e a noi, il dietro le quinte del suo lungo reportage.

Con uno scatto narri storie spesso inascoltate, come riesci in un istante a condensare un racconto?

C’è un grande lavoro di ricerca alle spalle di queste fotografie che è frutto della comprensione della storia, aver passato tanto tempo in questo luogo, con queste persone e poi la voglia di raccontare tramite l’amore. Quindi la voglia di non essere solo descrittivo ma di cercare tramite immagini evocative di far sentire i sentimenti che coinvolgono le persone in Palestina e in particolare le donne, le mogli e i bambini di questi prigionieri.

Il linguaggio fotografico riesce a superare i limiti del linguaggio verbale diventando linguaggio universale.

 

Io sento fortemente la responsabilità di essere onesto in quello che racconto, di cercare tramite le immagini di far sentire emozioni che ho provato io in prima persona, di cercare di coinvolgere a livello emotivo chi guarda, di andare all’essenza della comunicazione e del messaggio che c’è dietro questa immagine cercando di costruire, realizzare delle foto che diano la possibilità a chi le guarda di sentire più le emozioni che vedere i fatti. Nelle mie immagini ci sono molto spesso situazioni di sospensione, di transizione tra una situazione e un’altra, cerco così di far sentire l’atmosfera che gravita intorno a queste persone.

C’è un tuo lavoro al quale sei particolarmente affezionato?

 

C’è un lavoro al quale sto lavorando in questo momento, che non è stato ancora pubblicato né reso noto. Un lavoro che sto facendo in Italia per il National Geographic che riguarda il covid e la maternità all’epoca del covid.

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