Il nero delimita forme in movimento, i colori vibrano nelle immagini di Keith Haring, bambino nei tratti che parlano un linguaggio universale.
“Questo è un momento triste…è triste perché sono di nuovo confuso, o forse dovrei dire “ancora”? Non so quello che voglio né come ottenerlo. Mi comporto come se sapessi quello che voglio e sembra che mi stia muovendo rapidamente in direzione della meta, ma quando arrivo al punto non so neppure cosa sia. Credo dipenda dalla paura. Ho paura di sbagliare. E credo di avere paura di sbagliare perché mi confronto continuamente con gli altri, con altre esperienze, con altre idee. Invece dovrei guardare a tutte queste cose in prospettiva, senza fare paragoni”.
Era il 29 aprile 1977 e a scrivere queste parole sul suo diario era un 18enne Keith Haring. Proseguirà a scrivere sino al 22 settembre 1990 raccontando la sua visione del mondo, dell’arte e di tutto ciò che gli girava intorno.
“Se sento che c’è un’idea che vale tutti quanti i miei sforzi, utilizzerò tutto quello che ho a disposizione. Nulla è sacro al punto da essere immodificabile. Se un pezzo è definitivo, ciò implica che è perfetto, o che ha la forma più pura che si possa raggiungere. Io non credo di essere capace di imitare la perfezione della natura. Il lavoro che creo è di una realtà differente. Non è creato come è creata la natura. Nasce dai miei tentativi umani di creazione, ma non può mai raggiungere la perfezione. Gli esseri umani non sono capaci di perfezione. Il mio lavoro può essere soltanto una creazione della mente e dello spirito umano. Questo atto di creazione o conoscenza della creazione cambia col tempo. La natura invece è costante. Gli esseri umani sono in uno stato di cambiamento costante. Al massimo, siamo in grado di creare lavori che rappresentano le nostre capacità nell'arco di un certo lasso di tempo” scrive nel dicembre dell’anno dopo.
Dalle pagine dei suoi diari traspare un artista sempre aperto alla contaminazione, al cambiamento, alla volontà di fare qualcosa che trascendesse il tempo, restando fedele al suo concetto di arte.
Scopre presto che l’idea di un’arte per pochi è un artefatto della società per tenere lontane, più in basso, intere fasce della società. Mentre dipingeva in un edificio con le porte sulla strada, si accorge che a fermarsi e a rimanere lì intenti ad osservarlo erano persone solitamente non frequentatori di gallerie o mostre. “C’è un audience che viene ignorata ma che non necessariamente è ignorante. Sono aperti all’arte quando l’arte è aperta a loro”.
Si interroga sul perché di tutto e sempre cerca con il suo sguardo di essere visto e sentito dal maggior numero di persone.
I Diari di Keith Haring edito da Mondadori Baobab con una traduzione di Giovanna Amadasi e Giuliano Picco, la premessa di David Hockney e l’introduzione di Robert Farris Thompson sono una lucida e appassionata visione del mondo di un artista che per 31 anni ha illuminato il mondo.