Visioni d'insieme

Uno stupor di morbida follìa

Uno stupor di morbida follìa

Lui ama di lei i suoi occhi, le onde dei suoi capelli, il movimento delle ciglia, il lungo collo, la bocca e soprattutto i suoi versi.

 Ma poi le scrive “Non già che io temessi d’innamorarmi di Voi (io non sono innamorato che di me stesso; voglio dire: di ciò che succede in me stesso)”.

Audace, libera e anticonformista Amalia Guglielminetti è un lieve refolo di vento nell’inizio del secolo scorso. Ricca di famiglia, educata nell’istituto delle Fedeli compagne di Gesù e in seguito al Sacro Cuore, pubblica le sue prime poesie a vent’anni sull’edizione domenicale della Gazzetta del Popolo.

“Il pianto è la benefica rugiada che nell'ombra ogni nuova anima irrora. Gioia amara di quella che s’accora viatrice solinga in buia strada” scrive languidamente nel suo Le vergini folli, il libro amato dai grandi critici del tempo. Il temutissimo Giuseppe Antonio Borgese di lei scrisse “Costei è un’artista di tale strepitosa forza che bisogna lasciarla sola”; Dino Mantovani, tra i suoi più grandi estimatori considerava i suoi versi una perfetta fusione tra Saffo e Gaspara Stampa. Ma per Guido Gozzano non era abbastanza il paragone. I versi di quel libro così liberatorio e provocante furono al centro di ogni suo pensiero per lungo tempo. Durante una traversata da S. Giuliano a Portofino con De Paoli e Rossi, su un peschereccio furono declamati a gran voce per liberarli al vento “Rossi leggeva a voce alta: e le sue rime avevano un fascio di corde per leggio e il mare per commento” le scrisse in una lettera.

“Dolce salire nella chiara sera, sola col vento che m'abbraccia, folle più d'ogni amor, la strada erta del colle fra un presagio lontan di primavera” scrisse in Sere di vento, “l’unica poetessa che abbia oggi l’Italia” come la definì Gabriele D’Annunzio.

Guido e Amalia si si scrivono, si parlano, si amano e tra le infinite lettere appaiono le pieghe di ciò che erano “ho ritrovato fra le pagine del suo libro un poco di quella fraternità spirituale che la sua offerta mi rivela. Il rimpianto di ciò che fu, e l’ansia di ciò che non è ancora, e il sottile tormento del dubbio, e l’ebrezza folle del sogno, tutte le cose belle e perfide di cui noi poeti si vive e ci s’avvelena” scrisse Guglielminetti ad un Gozzano che ancora chiamava Cortese Avvocato.

Il rimando tra i due è continuo, quasi a tenere il tempo delle rispettive vite. Il 5 giugno 1907 lui in una lettera di quel libro libero e puro scrive “a qualunque pagina si apra il volumetto, si sente il profumo dello stesso giardino; il giardino dove Lei procede conducendo per mano la teoria delle compagne. E il lettore ha l’impressione di essere per qualche istante ammesso in un giardino claustrale: ad ogni svolto di sentiero, fra i cespi di gigli e gli archi de’ rosai, una nuova coorte di vergini si fa innanzi cantando una nuova sorta di martirio o di speranza. Ella compie nel suo libro, Egregia Guglielminetti, quasi un vergiliato, e conduce il lettore attraverso i gironi di quell’inferno luminoso che si chiama verginità”.

Lei si schernisce, le buone maniere imparate dalle suore sono sempre lì in un angolo, nonostante lei cerchi costantemente di scrollarsi di dosso la rigida formazione che relega emozioni e sentimenti in un angolo funzionale ad una vita incasellata.

É audace in ciò che scrive e nella vita che decide di vivere. A tratti tumultuosa, con i suoi amori impossibili, mentre lei cammina come una macchia viola d’acquarello su un foglio, si espande senza confini, nella insolita direzione che più le aggrada.

“Voi non siete George Sand e io non sono Alfred de Musset” le scrive Gozzano confinando la loro relazione ad una affinità elettiva.

Amalia vive e nel mentre scrive “Dentro le vene la malinconia s'insinua, ed è un morbo sonnolento cui giova non trovar medicamento, uno stupor di morbida follìa. Il desiderio più tenace svia, smemora del più intenso sentimento, quasi vapori un greve incantamento d'oppio, in cui goda più chi più s’oblìa”.

Ada Negri si impossessa della sua anima, “mi scrive lettere che mi fanno male, invidiandomi la mia bella libertà di canto, ella ch’è ormai schiava di quel po’ di fortuna trovata nella vita”.

Crea stupore, ammirazione e indignazione al tempo stesso, questa donna che oltre ad esser brava è anche bella. Un sacrilegio.

Un giorno Gozzano con gli amici poeti Carlo Vallini, Mario Bassi e Mario Vugliano mentre lei passa lungo la via dicono “Detestabili le donne che scrivono! Se scrivono male ci irritano. Se scrivono bene ci umiliano”.

Il solito vecchio conflitto irrisolto. Ma Gozzano è poeta più che uomo e dei versi di quella donna così sfrontata nella vita e sofisticata nei modi scriverà “Come fare per dirle che di molti suoi sonetti sono innamorato? Lei non sa, Egregia, che cosa significhi per me l’essere innamorato d’una poesia? Significa questo: averne la presenza nel cervello, con una dolcezza quasi importuna, sentirne pulsare il ritmo di continuo nelle cose più diverse e più bizzarre: nel mare, nel treno, nel ticchettio dell’orologio, nel soffiare del vento fra i palmizi, nel contare le gocce di creosoto, nel tinnire delle posate, nel gridio de’ bimbi... Proprio! E molti dei suoi sonetti mi perseguitano. Mi balza alla mente una quartina, due: mi abbandono a quella dolcezza: la memoria ad un tratto s’arresta e il piacere del sogno si stronca a metà”.

A volte l’uomo prende il sopravvento e allora le scrive “Le donne d’un fascino spirituale come Voi non hanno il diritto di essere belle. Sovente, quando parlate, io dimentico e non seguo le vostre parole, per il gioco attirante delle vostre labbra sane o per la carezza lenta delle vostre ciglia sulle vostre gote...E questo è male”. Lei come sempre si schernisce, fingendo un pudore che non le appartiene. 

A parole si sminuisce, rimanda un’immagine di sé mansueta, docile, sottomessa, “La vanità dei nostri colloqui è dovuta a me, sapete, perché io so dire così poco e così male quello che penso. Per questo forse, solo per questo io scrivo e m’illudo d’esprimermi meglio. E poi certe cose pérdono o si travisano o si falsano ad essere dette, altre assolutamente non si possono dire; mancano nel discorso parlato le sfumature e le imagini della poesia, che dette sembrerebbero affettazioni e pose. Solo una lunga intimità fra due persone d’uguali aspirazioni come noi siamo, potrebbe dissipare questa reticenza e inchinare poco a poco a una concorde e piena manifestazione d’ogni più sottile moto del pensiero. Noi non dovremmo parlare che di noi stessi quando siamo insieme, e invece perché popoliamo il nostro discorso di persone intruse e di cose estranee?”. Lo ammalia, come fa con tutti. Vive nel riverbero dell’incanto della sua persona. E anche vicina alla morte non dimentica di lasciare quelle macchie come acquerugiola, sui fogli della vita degli altri “non lotto più, non cammino più. Impigrisco blandamente e tristemente invecchio”. 

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