Lui è più me stessa di quanto non lo sia io. Di qualsiasi cosa siano fatte le nostre anime, la mia e la sua sono la medesima cosa.
Scrive Emily Brontë in Cime Tempestose, il suo unico libro ardente e folle, di amore, di assoluto, di vita e di morte scritto l’ottobre 1845 e il giugno 1846.
Per pubblicarlo dovette cederne la maternità ad un inesistente Ellis Bell, sarebbe stato più facile far leggere quelle parole se scritte da un uomo.
Troppo crudele, duro, brutale per l’Inghilterra vittoriana. Fu aspramente criticato da molti, ma in tanti ne capirono il genio. E quando Emily ormai non c’era più, ci pensò la sorella Charlotte a difenderlo dalle critiche. Nella prefazione alla seconda edizione del 1850 scrisse “Il carattere di mia sorella non era naturalmente socievole; le circostanze favorirono la sua tendenza all'isolamento; tranne che per andare in chiesa o fare una passeggiata sulle colline, raramente varcava la soglia di casa. Sebbene i suoi sentimenti per le persone intorno fossero benevoli, non cercò mai di avere rapporti con loro; né, con pochissime eccezioni, mai sperimentato. Eppure lei li conosceva: conosceva i loro modi, la loro lingua, le loro storie familiari; ne poteva sentire parlare con interesse e parlarne in modo dettagliato, minuzioso, vivido e accurato; ma con loro scambiava raramente una parola”. Cercava di spiegare l’inconciliabile mitezza della sorella con l’impeto e la forza delle sue parole.
Di ciò che la più riservata delle sorelle Bronte è riuscita a creare con un solo unico libro, hanno scritto in tanti. Tomasi di Lampedusa nutriva per Emily Brontë una ammirazione ai limiti dell’adorazione “Emily Bronte, l'ardente, la geniale, l'indimenticabile, l'immortale Emily. Non scrisse che pochi versi, brevi liriche, aspre ferite alla cui malia non si sfugge”. Di Cime Tempestose scrisse “Un romanzo come non ne sono mai stati scritti prima, come non saranno mai più scritti dopo. Lo si è voluto paragonare a Re Lear. Ma, veramente, non a Shakespeare fa pensare Emily, ma a Freud; un Freud che alla propria spregiudicatezza e al proprio tragico disinganno unisse le più alte, le più pure doti artistiche. Si tratta di una fosca vicenda di odi, di sadismo e di represse passioni, narrate con uno stile teso e corrusco spirante, fra i tragici fatti, una selvaggia purezza. Il romanzo romantico se mi consente il bisticcio, ha qui raggiunto il proprio zenith”.
Se ne interessa anche Virginia Woolf che su quel romanzo scrive un intero saggio “Cime tempestose è un libro più difficile da capire di Jane Eyre, perché Emily era più poeta di Charlotte. Scrivendo, Charlotte diceva con eloquenza e splendore e passione «io amo», «io odio», «io soffro». La sua esperienza, anche se più intensa, è allo stesso livello della nostra. Ma invece non c’è «io» in Cime tempestose. Non ci sono istitutrici. Non ci sono padroni. C’è l’amore, ma non è l’amore tra uomini e donne. Emily si ispirava a una concezione più generale. L’impulso che la spingeva a creare non erano le sue proprie sofferenze e offese. Rivolgeva lo sguardo a un mondo spaccato in due da un gigantesco disordine e sentiva in sé la facoltà di riunirlo in un libro. (…) Il suo è il più raro dei doni. Sapeva liberare la vita dalla sua dipendenza dai fatti; con pochi tocchi indicare lo spirito di una faccia che non aveva più bisogno di un corpo; parlando della brughiera far parlare il vento e ruggire il tuono”.
Un noi totale, assoluto e per questo perso nel tempo. Impensabili oggi le sue parole “A che scopo esisterei, se fossi tutta contenuta in me stessa? I miei grandi dolori, in questo mondo, sono stati i dolori di Heathcliff, io li ho tutti indovinati e sentiti dal principio. Il mio gran pensiero, nella vita, è lui. Se tutto il resto perisse e lui restasse, io potrei continuare ad esistere; ma se tutto il resto durasse e lui fosse annientato, il mondo diverrebbe, per me, qualche cosa di immensamente estraneo: avrei l’impressione di non farne più parte”.