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Uno si eleva con le sue parole, per l’altro sono strumenti per scavare a fondo, sempre più a fondo nell’animo umano.
Uno sorride delle follie del mondo, l’altro accusa esecutori e mandanti.
Si incrociano, gravitano nello stesso mondo, pur non appartenendosi. Si scontrano, l’attrito genera scintille, ma si preservano a vicenda, come si fa con le cose preziose.
In una lettera del 1 marzo 1956 a Elio Vittorini, Italo Calvino parlando di Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini, scrisse “Un libro così dovrebbe essere lanciato con grandi dibattiti, manifestazioni, radio, televisione, documentari nel cinema, manifesti per le strade, fare che non si parla di altro per dei mesi”
Tre anni dopo in una lettera del 9 giugno 1959, Calvino scrive direttamente a Pasolini a proposito di Una vita violenta “È il tipo di libro che bisogna scrivere. Tutte (o quasi) le cose che io voglio ci siano in un libro ci sono. È un libro come avrei voluto scrivere io […] e forse mai scriverò, ma sono contento che sia stato scritto, cioè che la letteratura oggi non sia tanto diversa da come la vorrei”.
Divergenti per formazione, estrazione, mondo culturale, idee, si sono da lontano e a tratti stimati. In una lettera del 5 gennaio 1969 a Donald Heiney, Calvino scrive “Non capisco il riferimento a Pasolini. È uno scrittore che conosco e apprezzo, ma siamo stati sempre molto lontani […]. Abbiamo provenienze letterarie e maestri diversi, non abbiamo mai scritto sulle stesse riviste né fatto parte degli stessi gruppi. Anche nella politica, non ci siamo mai incontrati: io ero un militante di Partito, e lui è sempre stato un fellow traveller, e la differenza è grossa […]”.
Pasolini nella sua recensione a Le città invisibili pubblicata su Tempo, del 28 gennaio 1973 scrive “una scrittura metallica, quasi cristallina, ma leggera, incredibilmente leggera: la scrittura del gioco. A questa leggerezza Calvino non trasgredisce mai: non c’è mai un solo istante in cui egli scrivendo non cavalchi a briglie sciolte, come se andasse senza avere meta: eppure, in questo andare per andare, l’eleganza, la cura disinteressata dell’eleganza, non è tradita mai un momento” e poi parlando del loro rapporto negli anni “In modo molto ombroso, ci ammiravamo e ci amavamo, senza molti complimenti, troppo presi dall’importanza di ciò che facevamo per consentirci pause disinteressate. Poi Calvino ha cessato di sentirsi vicino a me. L’ho capito subito. All’inizio degli anni Sessanta, qualcosa si spaccava, e io e lui eravamo sulle parti opposte della spaccatura”.
Calvino gli risponde “Una parola sul nostro aver “cessato di sentirsi vicini” negli ultimi dieci anni o giù di lì. Sei tu che sei andato molto lontano, vuoi dire: non solo col cinema che è quel che più lontano ci può essere dal ritmo mentale di un topo di biblioteca quale io nel frattempo sono diventato, ma perché anche il tuo uso della parola si è adeguato a comunicare traumaticamente una presenza come proiettandola su grandi schermi: un modo di rapido intervento sull’attualità che ho scaricato in presenza”.
Si incrociano, si sfiorano, non si capiranno mai a pieno, in Scritti Corsari è Pasolini a dipingere i due mondi opposti “Tu hai un’idea ottimistica della storia; io ho un’idea tragica” e ancora “È chiaro che tu non puoi capire ciò che io dico: tu appartieni a un’altra visione del mondo”.
Nella storica lettera di Pasolini pubblicata in prima pagina su Paese Sera, l’8 luglio 1974, lo scrittore friulano scrive “Caro Calvino, Maurizio Ferrara dice che io rimpiango un’ “età dell’oro”, tu dici che rimpiango l’“Italietta”: tutti dicono che rimpiango qualcosa, facendo di questo rimpianto un valore negativo e quindi un facile bersaglio. Ciò che io rimpiango (se si può parlare di rimpianto) l’ho detto chiaramente, sia pure in versi (Paese Sera3, 5-1-1974). Che degli altri abbiano fatto finta di non capire è naturale. Ma mi meraviglio che non abbia voluto capire tu (che non hai ragioni per farlo)”.
Come ha raccontato Walter Siti, dopo quella lettera i due furono invitati ad un incontro pubblico, Pasolini si presentò, Calvino no, era influenzato. Pasolini vista l’assenza disse “Peccato, avremmo litigato e sarebbe stato utile” e Calvino, in una lettera scrisse “Forse sarebbe stato meglio andarci”.
Continuano a gravitarsi intorno come due pianeti bellissimi che si guardano da lontano, coesistono pur nelle loro differenze. Dopo la morte di Pasolini, Calvino pubblica il 4 novembre 1975 sulla prima pagina del Corriere della Sera l’ultima lettera, tra le righe quell’ammirazione e amore di cui scrisse decenni prima Pasolini “il suo discorso ininterrotto provocava pubbliche discussioni, con le sue illuminazioni di verità e le sue nuvole d’ombra”.
Passano gli anni, Calvino non potrà più incrociarsi con Pasolini, ne sente il peso, la mancanza e in una intervista dirà “Avremmo dovuto parlarci di più, forse ci saremmo capiti”.

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