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Brahms, secondo a nessuno

Brahms, secondo a nessuno

Beethoven era il più grande, il più venerato e lui con rispetto, ammirazione e soggezione ha aspettato di compiere 43 anni prima di scrivere la sua prima sinfonia.

“Io non scriverò mai una sinfonia! Come può a noi venir voglia di scriverne una quando alle spalle si ascolta marciare un simile gigante?” furono le parole dette da Johannes Brahms al direttore d’orchestra Hermann Levi nel 1870. Sei anni dopo tra le bianche scogliere dell’isola di Rūgen, compose la sua Prima sinfonia in do minore op. 68. Il mondo intero aspettava questo momento e quando arrivò fu un successo clamoroso. Certo, non mancarono le critiche. 

La musica viveva un periodo di cambiamento tumultuoso, con la contrapposizione tra i classicisti come il giovane compositore amburghese e modernisti, come Wagner. Ma il successo fu immenso.

Un successo che pianta le sue radici nella profezia del suo amico e mentore Robert Schumann, che sempre vide in lui un futuro da compositore d’orchestra, tanto da scrivere del suo allievo “Se egli abbasserà la sua bacchetta magica là dove le potenze delle masse corali e orchestrali gli potranno concedere le proprie forze, noi potremo attenderci di scoprire paesaggi ancor più meravigliosi nei segreti del mondo degli spiriti”. Se l’incontro con Schumann e la moglie Clara Wieck, la più grande concertista dell’Ottocento, diedero una spinta alla sua carriera, il genio era in lui sin dalla nascita. Nacque ad Amburgo in un quartiere fatto di stradine strette e casupole in legno una addossata all’altro, il richiamo del mare era costante nelle sue orecchie e i suoi occhi amavano su tutti i colori italico-mediterranei. Aveva solo 5 anni quando il padre gli insegnò a suonare gli strumenti ad arco, ma lui a dispetto di quelle interminabili lezioni, già amava il pianoforte e a 10 anni per il suo primo concerto scelse direttamente tra le opere dei più grandi nell’Olimpo le musiche che avrebbe suonato, il Quintetto di Beethoven op. 16 e il quartetto di Mozart. Più in alto non poteva volare. 

Quando il sapere del padre non fu abbastanza per soddisfare la sua sete, gli fu affiancato un maestro, il compositore Eduard Marxsen, amico di Beethoven, che scrisse di lui “Mi convinsi che un talento eccezionale, grande e soprattutto profondo sonnecchiava in lui. Così non risparmiai gli sforzi per risvegliarlo e formarlo, per allevare un prete dell’arte, che avrebbe predicato con nuovi accenti ciò che è sublime, vero e soprattutto incorruttibile nell’arte”. A quindici anni già si guadagnava da vivere con la sua attività concertistica e i primi esigui guadagni li spendeva interamente per arricchire la sua biblioteca. Amava la musica e un tono sotto amava leggere, Goethe, Cicerone, Sofocle, Dante, Tasso, Hoffmann.

Nel 1850 la pianista Louise Japha gli cambiò la vita facendogli conoscere le opere di Robert Schumann. Lui ne fu immediatamente conquistato, stupito, ammaliato da quel romanticismo senza eguali.

Il giovane Brahms gli inviò alcune sue partiture, che però non arrivarono mai al destinatario. L’incontro tra i due fu solo rimandato, tre anni dopo con in mano un biglietto di presentazione di un comune amico musicista, Brahms andò a Dūsseldorf e bussò all’abitazione di Schumann. Ammirazione e stima furono immediate e reciproche. Sempre nel famoso articolo che Schumann scrisse su di lui si legge “Seduto al pianoforte, cominciò ad esplorare regioni meravigliose. Fummo immersi in cerchi sempre più magici dal suo modo di suonare, ricco di genio, che trasformò il pianoforte in un’orchestra di voci ora gementi, ora esultanti…possa il più elevato genio dargli più forza”. Le affinità elettive tra i due durarono tutta la vita e alla morte del maestro l’allievo compose per lui il Concerto in re minore per pianoforte op.15.

La sua fama cresceva e varcò i confini della vecchia Europa. La sua Serenata op. 16 fu suonata dalla New York Philharmonic nel 1862. Conquistò Vienna non appena vi mise piede e gli fu quasi subito offerta la direzione del primo coro a voci miste, con un contratto triennale che lui rifiutò per non avere vincoli e legami. Doveva muoversi libero, come la sua musica. Il 10 aprile del 1868 diresse per la prima volta un’orchestra. Fu acclamazione pubblica. Per lui fu indetta una festa riservata a musicisti e compositori che arrivarono da tutta Europa, tranne che dalla sua Amburgo, uno sgarbo non da poco, forse dovuto all’invidia per tanta grandezza. 

Una grandezza di cui era cosciente. Incenerì tutte le sue partiture giovanili perché voleva lasciare ai posteri solo le opere validate dalla pubblicazione. Un proposito che perseguì per l’intera sua vita e che inserì anche nel suo testamento “Desidero che tutto ciò che lascio in forma di manoscritto non stampato, venga bruciato. Io stesso comunque mi darò da fare al meglio in questo senso, specialmente rispetto alla musica; troverete ben poco da fare per esaudire il mio desiderio”.

Non fu amato da tutti. Wagner lo detestava, con Liszt il rapporto era un altalenante susseguirsi di amore e odio, Tchaikovsky lo considerava un impostore. Lui criticava tutti, memorabile la sua “se non ho offeso qualcuno me ne scuso”.

Ma lui cercava la bellezza di Mozart, la grandezza di Beethoven e la chiave di ogni ricerca raggiunta da Bach. Cercava in quel vortice che gli si parava davanti. “Ci sono talmente tante melodie che vagano nell’aria che devo fare attenzione a non calpestarle”

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