Leggere i suoi versi è come viaggiare, nel tempo, qualche decennio eppure tutto sovente resta immobile, e nello spazio, noto vissuto osservato.
C’è una provincia remota, quella leccese, le case dipinte con la calce bianca, la tristezza e una strana malinconia, ci sono centri storici al tramonto, le vie di Lecce, le campagne con il tabacco e la vite, l’amore e i riti nella cappella di San Paolo a Galatina. Ci sono le margherite gialle e un paese Cocumola, le donne e i gerani, c’è un Sud che resta tale. E c’è Bari, il polpo sbattuto e la pena. Paesaggi, impressioni, inquietudini. Restare e desiderare di andar via. Tornare e sperare di ripartire. Ci sono gli interrogativi “Dove hai nascosto, cielo, l’altra ipotesi?/ Quale parte è la nostra?/ Non saremo null’altro/ che rozzi testimoni di questo esistere?”. E poi ci sono i sentimenti, gli affetti, l’amore “Amore. Cosa chiamo con questo nome/ io non sono più certo di sapere”. C’è la possibilità di creare una situazione, una scena “Solo quando tu entrasti/ la barca fu piena,/ e il barcaiolo coi buchi nella maglietta/ fece sparire la nazionale/ che gli diedi perché remasse di spalla”. C’è la poesia “Attento. Ogni poesia/ può essere l’ultima”, e il sentirsi morire. “Qui non vorrei morire dove vivere/ mi tocca, mio paese,/ così sgradito da doverti amare;/ lento piano dove la luce pare/ di carne cruda/ e il nespolo va e viene fra noi e l’inverno”.
Scorrono le stagioni, Vittorio Bodini lo sa, come scorre il tempo nell’immutabilità delle cose dove ogni passo in avanti nei pomeriggi d’estate sono d’un tratto la tela che si disfa nel buio della notte. E tutto resta fermo, sempre. Il presente è calpestare il passato perché nulla cambi e tutto resti com’era.