Visioni d'insieme

Sulla strada con Kerouac al tempo di un beat

Sulla strada con Kerouac al tempo di un beat

Scintillanti imbroglioni danzano nelle strade in quel folle vortice che è la vita di Jack Kerouac. Volutamente diverso, sconfitto, emarginato.

Con un cuore che batteva al ritmo del sassofono di Charlie Parker. Mai fermare quel beat sino alla fine. Una intera vita vissuta su quel battito che è il suo personale nirvana, la beatitudine di vivere sino alla fine pienamente e completamente. 

E se il suo personalissimo dio in terra era Charlie Parker, gli apostoli erano Dizzy Gillespie, Thelonious Monk e Miles Davis.

“Voglio essere considerato un poeta jazz uno che suona un lungo blues in una jam session d’una domenica pomeriggio” scrisse un giorno. 

Jean-Louis non reggeva il ritmo, Jack era il nome giusto per quel battito incessante be-bop che ascoltava mentre scriveva, mentre leggeva, mangiava, dormiva dalla sua radio portatile General Electric modello P1820 AM / FM Eleven Transistor. Uno dei cimeli appartenuti al padre della Beat Generation e ora messi all’asta dagli University archives. Trentadue lotti che raccontano la storia di un poeta, un visionario, uno scrittore che ha rotto gli schemi della letteratura elevando al quadrato il concetto di libertà, di andare, di sentire, di essere.

“Stavamo su ventiquattr’ore a bere una tazza di caffè nero dopo l’altra, ad ascoltare dischi su dischi di Wardell Gray, Lester Young, Dexter Gordon, Willie Jackson, Lennie Tristano e tutti gli altri, parlando come matti del sacro sentimento nuovo che c’era nelle strade”. Suonare la vita sino all’ultimo battito è stato il suo mantra, il viaggio era il modo in cui ha scelto di viverla. “Stavamo compiendo la nostra unica e nobile funzione nella vita: andare”.   

Vivere un unico e grande viaggio fuori e dentro di sé. 

“Non soffermarti a pensare alle parole quando ti fermi, soffermati solo per immaginare meglio la scena – e lascia vagare libera la mente in questa storia” scrisse nel suo Dottor Sax, il suo libro preferito, all’asta anche la sua copia della versione in italiano, edita da  Mondadori nel 1968 e tradotto da Magda de Cristofaro.

“La musica è così bella che mi sento venire meno nell'ascoltarla lì in piedi a pensare perduto alla mia tragedia notturna del sabato – Intorno a me tutti i vaghi angeli azzurri dell’idillio stanno volando con i puntini luminosi, la musica spezza il cuore e anela a giovani cuori vicini, labbra di ragazze adolescenti, impossibili e perdute ragazze del coro dell’eternità che ballano lentamente nella nostra testa al suono del folle e disgraziato tamburino dell'amore e della speranza”.

Di Kerouac non si leggono le parole, si sente il battito, giù nel profondo dell’anima e se si arriva lì infondo magari ti succede quello che è capitato a Bob Dylan che diceva sempre che Kerouac e Sulla Strada gli hanno cambiato la vita.

Quella vita che non è fatta di tempo che scorre, “il tempo è polvere” . Anche se al polso portava un Rolex Oyster Perpetual in acciaio (anche lui all’asta).

Elimina il tempo, elimina le sovrastrutture mentali, amplia lo sguardo e ricordati sempre di avere una visione d’insieme che richiami quel ritmo incessante. Non lo senti? Ascolta la tromba di Miles Davis. Lui lo sentiva sempre, era veloce nel vivere come nello scrivere, un fluire senza interruzioni, proprio come The scroll, il rotolo di carta su cui ha scritto Sulla Strada. Non fermare il ritmo. 

Interlinee, spaziature, margini, inutili pause del suo fluire. Gli unici margini in cui credeva erano quelli in cui vivere. I marciapiedi, i sotterranei, dove vivevano le uniche persone degne di considerazione. “Per me esistono solo pazzi. I pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi gialle candele romane, che esplodono simili a ragni sopra le stelle” ma che era un fervente cristiano. Portava Cristo appeso al collo su una piccola medaglietta, collezionava santini e crocifissi di tutte le forme e grandezze. Il suo preferito era quello in bronzo alto quasi tre metri, con un bassorilievo di Gesù Cristo, in vendita anche lui, base d’asta 375 dollari. “E naturalmente adesso nessuno può venire a dirci che Dio non esiste. L'abbiamo visto in tutte le sue forme”.

In quel suo continuo andare senza sosta catturava al volo oggetti apparentemente insignificanti come le due bambole messicane in argilla dipinte a mano che conservava su una mensola nel suo studio.

“A me piacciono troppe cose e io mi ritrovo sempre confuso e impegolato a correre da una stella cadente all'altra finché non precipito. Questa è la notte e quel che ti combina. Non avevo niente da offrire a nessuno eccetto la mia stessa confusione”.

Quella confusione che era un turbinio di tutto ciò che lo affascinava, lo faceva sentire vivo: la letteratura, la musica e l’arte. Tappezzava la sua casa con le stampe dei suoi quadri preferiti, il Ritratto di Père Tanguy di Vincent Van Gogh, la Nafea (Quando vuoi sposarti?) di Gauguin, Con l’aquila di Paul Klee e un particolare del murales di Diego Rivera al Palazzo Nazionale di Città del Messico.

In un inestricabile groviglio di emozioni, dove l’unica regola era sentire sempre, troppo, come spiegano i suoi angeli di desolazione “poveri cuori umani che battono dappertutto”.

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