Visioni d'insieme

L’epifania collettiva della Six Gallery

L’epifania collettiva della Six Gallery

Il 7 ottobre 1955 in un ex garage trasformato in spazio espositivo e culturale,

 al 3119 Fillmore Street di San Francisco Kenneth Rexroth, poeta e mentore della scena letteraria californiana immagina la Six Angels in the Same Performance.

Sul palco salgono Allen Ginsberg, Philip Lamantia, Michael McClure, Gary Snyder e Philip Whalen, ad incitarli e incoraggiarli Jack Kerouac, il sesto.

Il primo a salire sul palco è Philip Lamantia, dalla sua voce non i suoi versi ma le poesie dell’amico John Hoffman, morto pochi mesi prima in Messico.

Poi Michael McClure, legge alcuni suoi versi inediti, Snyder declama A Berry Feast, poi Whalen e infine Ginsberg. Ha un foglio in mano, trema per l’emozione, ma poi inizia “Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla follia, affamate, isteriche, nude, trascinandosi all’alba per le strade dei negri in cerca di una dose rabbiosa, hipster dalla testa d’angelo che bruciano per l’antica connessione celeste con la dinamo stellata nel meccanismo della notte, che povertà e cenci e occhi infossati e alti sedevano a fumare nell’oscurità soprannaturale di appartamenti dall’acqua fredda che galleggiavano sulle cime delle città contemplando il jazz, che mostrarono il cervello al Cielo sotto l’El e videro gli angeli maomettani barcollanti sui tetti illuminati…”.

Era la prima volta che declamava The Howl, le 150 persone assiepate tra le sedie di fortuna rimasero folgorate. Michael McClure scrisse in seguito: “Fu come se la poesia fosse tornata a essere un atto sacro, un rito di trasformazione. Tutti noi sentimmo che qualcosa di nuovo stava nascendo”.

Kerouac parlò di una “epifania collettiva…Allen stava leggendo e io gridavo ‘Go! Go!’ tra un sorso di vino e l’altro. Era come se la poesia fosse tornata a essere viva, urlata, condivisa.”

Per Kenneth Rexroth quella serata fu “la dichiarazione di indipendenza della nuova poesia americana”.

Il pubblico dopo la lettura di Ginsberg esplose in un urlo liberatorio, lui non immaginava una reazione del genere, in una intervista disse “Non pensavo di cambiare il mondo. Volevo solo dire la verità che avevo dentro”, ma il tumulto era vivo, l’impeto che aveva colto tutti era palpabile. Decise lì di inviare il manoscritto a Ferlinghetti e alla sua City Lights, che lo pubblicò immediatamente, quarto volume della neonata collana Pocket Poets Series con la prefazione di William Carlos Williams.

Quella sera fu un’apoteosi. Il raggiungimento del nirvana. La poesia come rito collettivo e rivoluzionario. Fu quello il momento esatto in cui la Beat Generation nacque, tra i fogli di carta di quelle poesie, tra le parole lucide e disperate di Ginsberg.

La Six Gallery nata solo un anno prima dall’idea di un gruppo di artisti e poeti Wally Hedrick, Deborah Remington, Jack Spicer, Hayward King, David Simpson e John Ryan, illuminò la scena della San Francisco Renaissance per qualche anno. Era “un luogo dove le idee venivano messe alla prova” scrisse il critico Alfred Frankenstein.

L’epifania tornò ogni giorno in quel luogo, sino a quando non si spense, volando in altri luoghi, sempre sulla strada o nei suoi sotterranei.

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