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Restare, andare, il peso degli abbandoni in entrambi i casi, il desiderio di fare di pietre pane.
“Amo e odio. Una tensione dialettica segna il mio essere nel mondo, un pasoliniano scandalo della parola o, forse, la fecondità di un contrasto irrisolto. Amo i miei luoghi e, a volte, odio restarvi e vorrei disseminarmi in tutti i luoghi del mondo; avverto spesso la frustrazione del restare per cambiare un mondo che non sembra voler cambiare, che anzi sembra scomparire e morire giorno dopo giorno, ed ecco che mi accingo a raccontare il senso, il disagio, la bellezza, di vivere nel luogo da cui osservo il mondo” scrive Vito Teti in apertura del suo libro che è tutto un andirivieni tra partire e restare, due lati della stessa medaglia.
Teti, docente di antropologia culturale all’Università della Calabria, fondatore del Centro di Antropologia e Letterature del Mediterraneo, responsabile dell’associazione europea di antropologia dell’alimentazione in Italia autore de La Restanza, edito da Einaudi nella collana Le Vele, dove il mito dell’altrove svanisce sostituito dall’etica della restanza.
Dopo aver cercato per secoli un luogo che fosse più grande, più bello, più simile al sogno che custodivamo, oggi tutti quei mondi possibili si fondono in un mondo che è qui ed ora, che vive tra gli spettri del passato ma cerca sulle sue ceneri di costruire il futuro.
“«l’assai è come il niente»: un’ipertrofia che azzera la vocazione alla sacralità nel nichilismo ideologico della serialità capitalistica”, tutti quei più svaniscono in un’accumulazione seriale e compulsiva che ha dimenticato il sogno.
Come Teti anche Giorgio Caproni fece della restanza il suo essere: “Se non dovessi tornare, | sappiate che non sono mai partito. II mio viaggiare è stato tutto un restare qua, dove non fui mai”.
E anche quando restiamo, restiamo davvero “Siamo tutti altrove. Siamo tutti esuli. In esilio da un tempo che più non ci appartiene, da luoghi che ci sono stati sottratti o da cui ci siamo allontanati. La lontananza e la scissione radicale dell’esiliato dal suo personalissimo «ventre della terra» coincidono con la condizione umana”.
Restare non è una resa incondizionata, non è un abbandono all’ineluttabilità delle cose, non è immobilismo “per restare, davvero, bisogna camminare, viaggiare negli spazi invisibili del margine”.
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