Rifugiarsi in libreria per l’arrivo improvviso di un acquazzone, girovagare tra gli scaffali posando lo sguardo distrattamente sui libri.
Alla lettera P, gli scaffali sistemati in un rigoroso ordine alfabetico degli autori, Pier Paolo Pasolini richiama l’attenzione dell’avventore distratto. Chiede un’altra P, quella di poesie. Versi di rabbia e di dolore, versi di critica severa, puntuale, precisa. Visione della storia e del presente, disamina della realtà senza filtri, senza allusioni. La parola è tagliente come il pensiero. La parola è specchio.
La raccolta Poesie di Pier Paolo Pasolini edito da Garzanti, nel 1970 con l’introduzione dell’autore “Al lettore nuovo” nella quale scrive “Ciò che mi colpisce ancora, rileggendo questi versi, è rendermi conto di quanta fosse ingenua l’espansività con cui li scrivevo: proprio come se scrivessi per chi non potesse volermi un gran bene. Adesso capisco perché sono stato tanto sospetto e odiato”.
Sono versi tristi, melanconici per il sentirsi giudicato e non compreso, Sono versi che esprimono la delusione per gli intellettuali e i politici incapaci di tenere alti i valori della Resistenza. Sono versi che parlano di Pier Paolo, dei suoi desideri dei suoi amori. Quasi un testamento.
“Non serve, per ringiovanire, questo/ offeso angosciarsi, questo disperato/ arrendersi! Chi non parla, è dimenticato./ Tu che brutale ritorni,/ non ringiovanito, ma addirittura rinato,/ furia della natura, dolcissima,/ mi stronchi uomo già stroncato/ da una serie di miserabili giorni,/ ti sporgi sopra i miei riaperti abissi,/ profumi vergine sul mio eclissi,/ antica sensualità, disgregata, pietà/ spaurita, desiderio di morte.../ Ho perduto le forze;/ non so più il senso della razionalità;/ decaduta si insabbia/ - nella tua religiosa caducità - / la mia vita, disperata che abbia/ solo ferocia il mondo, la mia anima rabbia”, da Il glicine.