Visioni d'insieme

Io sono il capitano della mia anima

Io sono il capitano della mia anima

Di libri era piena la sua casa, pane quotidiano del padre libraio. Fiumi di parole lette e sognate.

Cromosomi di ogni sua cellula, parte del suo essere e poi come il respiro, come una propaggine spuntavano forti e dirompenti e mai piegate, contro un mare in burrasca, mai affondate, mai destinate al fondo degli abissi, ritte come alberi che il vento piega ma non può spezzare. 

“Dal profondo della notte che mi avvolge/ nera come un pozzo da un polo all’altro/ ringrazio gli dei qualunque essi siano/ per la mia anima indomabile”.

Le parole di William Ernest Henley portano in dono la vita che ha vissuto, da quando a 12 anni contrasse il morbo di Pott, una tubercolosi che lo costrinse all’amputazione di parte della gamba sinistra, un morbo che voleva prendersi anche la destra, ma lui, mai vinto, restò tre anni in un letto d’ospedale per salvarla, per continuare a domare il mare in tempesta della sua vita. 

“Nella stretta morsa delle avversità/non mi sono tirato indietro né ho gridato./Sotto i colpi d'ascia della sorte/il mio capo è sanguinante, ma indomito”. Il dolore non doveva vincere e non vinse, il fratello più piccolo, Joseph di quei giorni a letto piegato dalla malattia disse 

“saltava per la stanza, ridendo forte e giocando con entusiasmo per fingere di essere al di là della portata del dolore”.

Un 17enne con una gamba di legno, ammesso ad Oxford per i suoi meriti, dove non studiò mai a causa della sua indigenza, collaborò alla stesura dell’Enciclopedia Britannica, prese sotto la sua ala i tanti giovani scrittori che grazie a lui spiccarono il volo e sbeffeggiò sempre con indomito vigore la vana gloria dei vani profeti.

Robert Louis Stevenson si ispirò a lui per tratteggiare Long John Silver de L’isola del tesoro, scrivendo all’amico una lettera nella quale si legge “Lo devo ammettere: fu la vista della tua mutevole forza, della tua poderosa maestria, che mi ha dato l’idea di forgiare Long John Silver… l’uomo mutilato, temuto da tutti, è tratto da te”.

Mentre J.M.Barrie si ispirò a sua figlia Margaret, morta a 6 anni per una meningite, che lo chiamava fwendy (al posto di friendy) per la Wendy del suo Peter Pan.

“Oltre questo luogo di collera e lacrime/incombe soltanto l'orrore delle ombre./Eppure la minaccia degli anni/mi trova, e mi troverà, senza paura”.

La paura non l’ha fermato e i suoi versi sono stati invocati da chi, come lui, cercava l’invincibile coraggio di un invictus. 

Come Winston Churchill nel discorso ai Comuni il 9 settembre del 1941, come Nelson Mandela, che la leggeva e rileggeva nei 27 anni di prigionia a Robben Island.

Oscar Wilde, non se ne ritenne all’altezza quando dal carcere di Reading, scrivendo il De Profundis ammise “I was no longer the captain of my soul, and did not know it”.

“Non importa quanto stretto sia il passaggio, quanto piena di castighi la vita”. E se tanto aveva perso, se la vita aveva sottratto più che aggiungere, nulla era perduto per William Ernest Henley, lui più di chiunque altro era il mai vinto, lui che a se stesso ricordava “Io sono il padrone del mio destino: Io sono il capitano della mia anima”.

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