Visioni d'insieme

Silvina Ocampo, ho riso perdonatemi per questo

Silvina Ocampo, ho riso perdonatemi per questo

Indossava espadrillias rosse e quando viaggiava con la famiglia aveva sempre al seguito una mucca, per bere latte fresco in ogni momento.

La sua famiglia era ricchissima, tra i suoi avi c’erano un governatore del Cuzco, un caudillo, un conquistatore di Asunción, il direttore supremo delle province unite del Rio della Plata, un candidato alla presidenza dell’Argentina.

Silvina Ocampo è l’ultima delle sei sorelle Ocampo. Non la più illustre e celebrata, quella era Victoria, amica di Tagore, Indira Gandhi, Picasso, Borges, Stravinskij, fondatrice di Sur, la rivista che plasmò la cultura argentina. Non la più sfortunata, quella era Clara che un giorno ancora bambina diventò blu e morì. Era una tra le tante e cercò di esserlo per tutta la vita “bisogna mantenersi nell’ombra…non mi ha mai interessato avere una vita pubblica, volevo una vita libera, non essere vista, non dover dare spiegazioni”.

Scrive per diletto da quando è bambina, lunghe lettere ad amiche immaginarie su principi e amori impossibili. Scriverà per tutta la vita, l’ultimo dei suoi libri lo pubblicherà a 90 anni. Sin quando l’Alzheimer le portò via una parte di sé.

Cerca l’indipendenza da quella famiglia ingombrante, sceglie la Parigi degli anni Venti, il centro di tutto. Si confondeva tra i pittori argentini che si incrociavano, confrontavano, scontravano a La Rotonde e al Dôme. Diventa amica di Norah Borges, l’audace pittrice ultraista, sempre avanti, troppo avanti “non è mai stata contemporanea” disse di lei il fratello Jorge Luis, “In tutti i nostri giochi lei era sempre la leader, io ero il ritardatario, il timido, il sottomesso. Si arrampicò sul tetto, si arrampicò sugli alberi e sulle colline io la seguii con meno entusiasmo che paura”.

Silvina bussa alla porta di Picasso, voleva essere sua allieva, ma lui la rifiuta. Ripiega su Giorgio De Chirico, che le insegnerà tutto. Lei in cambio gli dedicherà una elegia, “Ricordo il profilo greco e la mela e il cielo di Parigi nella finestra dove sognava lo spazio e la colonna. Mentre dipingevo impetuosamente, nel silenzio, attento, il suo sguardo, ero spaventata dal suo volto imprigionato”. Torna in Sud America e sposa Adolfo Bioy Casares. Lei erede di una borghese famiglia di allevatori di bestiame, lui di un produttore caseario.

Casares era uno dei tanti che gravitava intorno a sua sorella Victoria, alla rivista, alla sua enclave culturale. Lui e naturalmente Borges, sin dal primo numero. L’amicizia tra Casares e Borges li fuse a tratti in un’unica persona, scrissero a quattro mani, sotto lo pseudonimo di Honorio Bustos Domecq, anche se a volte la maternità delle loro opere in realtà era di Silvina. Borges cenava ogni sera con la coppia di cui Hugo Beccacece scrisse “Hanno la bellezza, il fascino e la crudeltà del perfettamente riuscito, di tutto ciò che nella sua pienezza si basta da solo. Dopo essere stato con loro, qualunque conversazione risulta insipida, pesante, volgare, come se si abbandonasse una regione illuminata da un sole perpetuo per passare a una provincia coperta da nebbie. Probabilmente ci sono altri matrimoni ‘letterari’ nel paese, ma senza dubbio Adolfo Bioy Casares e Silvina Ocampo formano la coppia più talentuosa e ricca di immaginazione di tutta l’Argentina”. Silvina non sopportava l’amicizia tra i due, quella porta chiusa e le risate dove lei non  c’era. Forse per ripicca serviva ogni sera a tavola carne bruciata, una pannocchia di mais e un dulce de leche. Sempre, senza mai cambiare. Quasi fosse una punizione.

Resta in un angolo, ma scrive, scrive sempre “Già il dolore appassito come un lungo fiore la cui saggezza finalmente ti guarisce quando si dissolve perché diventa nella polvere, nell’illusione, in un’altra fortuna”. La critica la ignora, chi come lei di parole si nutriva, la amava, Calvino era tra loro. 

“Voglio morire se non riesco a trovare la mia vita la meta del mistero che mi guida, Voglio morire, diventare cieca e fredda come la pianta che fulmina il fulmine. Se quello che voglio dire è quello che taccio, e se devo odiare ciò che volevo senza disgusto e senza vergogna fino ad oggi, se tutto ciò che cerco è una semplice prova, Sarà perché ho vissuto di menzogne. Per non morire voglio morire. Il vento che risuona tra le pareti con le sue lire o l'ibisco vermiglio, o il frammento della luna, sempre qualcosa, anche la mia lamentela, Mi abbaglia e mi lascia più perplessa”.

Libera come le sue parole ha vissuto fluendo come acqua tra le rocce. Yo me reí. Perdóneme por eso. Ho riso. Perdonatemi per questo.

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