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Inge Morath, il bianco e nero delle emozioni

Inge Morath, il bianco e nero delle emozioni

“Nel mio cuore voglio restare una dilettante, nel senso di essere innamorata di quello che sto facendo

sempre stupita dalle infinite possibilità di vedere e usare la macchina fotografica come strumento di registrazione”.

Lei è Inge Morath, prima donna ad entrare a far parte dell’agenzia Magnum. Nata a Graz, in Austria nel 1923 da genitori scienziati, decide subito che la sua vita sarà improntata al superamento dei continui ostacoli che incontrerà sul suo cammino. Prenderà tutto come una sfida.

Lo decide già da bambina, quando viene iscritta in una scuola elementare francese retta da suore e viene fatta sedere al primo banco, secondo un criterio che vede i più intelligente seduti dietro e i meno svegli ai primi posti. Lei non si scoraggia, impara il francese, colma il gap che la divideva dagli altri compagni e l’anno seguente è in ultimo banco. Le lingue sono il volano per capire il mondo “imparare le lingue di chi fotografo è sempre stato un importante passo avanti verso la scoperta della loro immagine interiore”.

Ne impara sette durante il corso della sua vita. Perché Inge Morath è stata ovunque e ha fotografato chiunque e qualsiasi cosa. Amava la quotidianità delle persone, le sue sono foto che esprimono un attimo reale di vita vissuta, con una certa dose di grazia ed eleganza.

Che il suo futuro fosse dietro l’obiettivo di una macchina fotografica era scritto nel suo destino. Il nonno era un fotografo e la madre non perdeva occasione per portarla in qualche museo. 

Viaggia sempre, continuamente. Il suo primo lavoro importante è a Vienna, dopo la seconda guerra mondiale, quando diventa redattrice iconografica per la rivista Heute. L’allora caporedattore Warren Trabant le mette davanti centinaia di foto e le chiede di dividerle in due gruppi, quelle che ritiene belle da un lato e quelle che non le piacciono dall’altro e di spiegarne il perché. Alla fine di questo strano provino viene assunta. Scopre presto la fotografia sociale di Ernst Haas e se ne innamora. Propone al suo direttore di pubblicare il suo scatto “e le donne aspettano…” sulle mogli russe in attesa del ritorno dei mariti dalla guerra. Una foto potente, che non passa inosservata. Trabant la segnala a Robert Capa che a Parigi ha appena fondato la Magnum e lui appena osserva la foto chiama Haas e la Morath a Parigi per lavorare con lui. Viaggiano su un vagone di terza classe, con i sedili in legno, unico conforto i panini preparati dalla mamma di Ernst per il lungo viaggio.

Inizia così il rapporto con la Magnum. Il primo lavoro importante è un reportage sui preti operai che a Londra lavorano nelle fabbriche per essere più vicini ai loro fedeli. Diventa così ufficialmente una fotografa della Magnum. Segue le riprese del film Moulin Rouge di John Houston, che in seguito diventerà suo amico e con cui collaborerà a più riprese.

Nello scattare le foto fa sua la filosofia dell’amico Henri Cartier-Bresson, un fotografo scatta con un occhio aperto per inquadrare il soggetto e con un occhio chiuso per vedere la sua anima.

Nel 1956 va in Iran per un reportage sulla via della seta, viaggia da sola e dorme nelle rovine degli antichi palazzi. Nulla ferma la sua genuina curiosità verso il mondo e ogni singolo individuo. Si sposta in Iraq, in Giordania, in Siria. Nel 1959 accompagna l’attore Yul Brynner in Germania, Austria e a Gaza, per testimoniare la situazione dei profughi che ancora aspettano una casa. Fotografa tutto ciò che riesce a immortalare. Di quel viaggio restano 22 rullini da 36 foto l’uno e una lettera di ringraziamento per il lavoro svolto dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. 

Segue le riprese de Gli intoccabili dove incontra Arthur Miller a quel tempo marito di Marilyn Monroe. E’ storia la foto dell’attrice che balla a piedi nudi in un prato. Scocca la scintilla con Miller che per lei lascerà la Monroe, si sposano e avranno due figli, Rebecca e Daniel.

Continua incessantemente a fotografare. Nei primi anni di vita dei figli non si allontana molto da casa, poi torna a viaggiare. 

Sue le foto del funerale di Robert Kennedy dei tanti americani assiepati fuori dalla cattedrale di St Patrick nel 1968 e nel 1989 la caduta del muro di Berlino. E ancora in Slovenia, in Buthan, in Cina, in Indocina, in Italia, in Spagna, a Cuba per immortalare Fidel Castro.

A Madrid ferma l’attimo della siesta di una venditrice della lotteria in Plaza Major, seduta con la faccia e le mani coperte da un giornale, a proteggersi dal sole. A New York il lama che spunta dal finestrino di un taxi vicino a Times Square. A Bucarest le lezioni di danza a Palazzo dei Pionieri, una giovanissima ballerina alla sbarra, gli occhi chiusi, i capelli legati in una riga centrale e la concentrazione di un attimo. 

Fotografa l’arrivo dei gitani irlandesi a Killorglin nel ’54, una bambina in primo piano che corre a piedi scalzi e sullo sfondo una lunga fila di vagoni. 

La Russia è il freddo di Piatniza con una slitta trainata da cinque cavalli bianchi a Mosca.

E poi quella lunga serie di ritratti. Il suo amato Arthur Miller, Allen Ginsberg assorto nei suoi pensieri, con quelle due penne che spuntano dal taschino della camicia bianca, Alberto Giacometti che osserva due sue sculture, con quel suo sguardo sempre insoddisfatto e indagatore, pronto a buttar via tutto e rifare ancora una volta tutto da capo.

Ha sempre avuto una visione molto chiara di se stessa e di ciò che voleva restituire al mondo attraverso la sua fotografia e ai committenti che le chiedevano di utilizzare il colore, a lei che stampava rigorosamente in bianco e nero, rispondeva “Non mi piace che la gente mi dica che devo fare un ritratto a colori, quando io non vedo nessun colore”. 

Scoprire Inge è un po’ scoprire il mondo senza ombra di giudizio. 

Sino al 19 gennaio sarà possibile scoprirne almeno una parte visitando la mostra a lei dedicata al Museo di Roma in Trastevere che ripercorre le tappe della sua lunga e prolifica carriera.

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