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Cosa potrebbe portare la pioggia?

Cosa potrebbe portare la pioggia?

Cosa potrebbe portare la pioggia? Magari un po’ di bellezza, quella che si nasconde tra le pieghe del quotidiano.

Lì dove si insinua la finzione patinata, lì dove un’immagine hitchcockiana di un divano ricoperto di rane trova spazio per emergere.

What the rain might bring è l’ultimo lavoro di Dylan Hausthor, una mostra fotografica visitabile al Phest di Monopoli sino al 6 novembre, o meglio, un progetto interdisciplinare che esplora le complessità della narrazione, della fede, del folklore e dell'essenza queer del mondo naturale che prende il nome dalla guida di David Arora sui funghi, organismi senza sesso e quindi simboli perfetti del mondo queer.

“Sono i pettegolezzi di provincia, il rapporto con la terra, i misteri della fauna selvatica, il dramma umano e l'imprevedibilità dello spettacolo umano a ispirare le storie contenute in queste immagini e installazioni. Mi affascina l'instabilità della narrazione e vorrei permettere al personaggio e al paesaggio di interagire come singole voci di un pettegolezzo, incrociandosi e dando vita a nuove ibridazioni e sintesi. I modelli culturali, le comunità unite dalle proprie credenze, il ruralismo, i fantasmi che si aggirano per i paesaggi e il districarsi nelle narrazioni coloniali sono gli elementi al centro di queste installazioni, immagini e video” spiega l’autore.

Una falena intrappolata in una ragnatela, la fitta trama dei rami in un bosco, una capanna diroccata tra gli alberi, tutti rigorosamente in bianco e nero.

“Mi interessa la fotografia come linguaggio ibrido, fatto di nuance: intrecci di miti caratterizzati da punti di tangenza e sfumature, che si muovono tra giornalismo d'inchiesta, disinformazione, performance, comportamenti ossessivi e manipolazione consapevole. La capacità della fotografia di alimentare le credenze è un potere non distante da quello della fede. Utilizzando modalità di realizzazione tradizionalmente legate alla ricerca dei fatti, spero di trasportare chi osserva o legge il mio lavoro in uno spazio di confine tra realtà e finzione, superando i criteri di validità che costituiscono la base della tradizione colonialista nella narrazione e nel folklore, per approdare a un senso molto più umano della realtà: imperfetto, danneggiato e, in definitiva, reale”.

Ed è tutto.

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