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A che bello o cafe

A che bello o cafe

Sessanta, non uno di meno né uno di più erano i chicchi di caffè che Beethoven contava personalmente ogni giorno per preparare il suo caffè. 

Sessanta, il numero perfetto per raggiungere quel gusto robusto e forte che tanto gli piaceva.

“Ho misurato la mia vita a cucchiaini di caffè” diceva Thomas Stearns Eliot e non è stato l’unico. Anche Maometto, narra una leggenda, fu aiutato dal potere rinvigorente da quella bevanda “nera come la sacra pietra della Mecca”, che gli fu offerta dall’arcangelo Gabriele per sconfiggere 40 cavalieri in battaglia e soddisfare altrettante donne.

Storie e leggende si intrecciano con sentori e sapori di quella bevanda fatta magari con la ricetta di Ciccirinella

Partiamo dall’inizio, dall’albero di Coffea, originario della provincia di Kaffa (o Kefa) nel sud-ovest dell’Etiopia, lì fu prodotto ed esportato dal porto di Mokha (o Mocha), che diede poi il nome alla moka, la caffettiera inventata da Alfonso Bialetti nel 1933.

E dopo una indiscussa verità, un’altra leggenda. Le prime consumatrici di caffè della storia pare siano state le capre di un pastore che ne masticavano foglie e arbusti e diventavano forti e vigorose. Di lì il primo tentativo del pastore di farne un infuso per sentirsi anche lui vispo e arzillo come le sue bestiole.

Si chiamava il K’hawah,  il “rinvigorente” e si diffuse rapidamente in tutto il Medio Oriente. 

Impossibile non berne un sorso senza rimanerne conquistati. I monaci sufisti yemeniti non solo lo bevevano in grandi quantità, ma diedero vita, con perfetto stile imprenditoriale, alle prime caffetteria della storia.

La freccia era stata scoccata, come un virus, non letale, la pausa caffè si diffuse ovunque dal Medio Oriente, al Nordafrica, Persia, Corno d’Africa, India meridionale, impero ottomano, Balcani e infine al resto dell’Europa, del  sud-est asiatico e delle Americhe.

Quel suo aroma caldo e deciso è stato associato a quasi tutto.

Veniva bevuto per creare una intossicazione spirituale capace di portare in estasi i musulmani duranti i canti in onore di Allah. Attribuendogli quindi poteri quasi soprannaturali.

Irresistibile e per questo alle volte osteggiato per presunti poteri demoniaci o anche più semplicemente troppo eccitanti. 

Nel 1511 fu proibito dagli imam conservatori e ortodossi nel concilio della Mecca, ma la tentazione di berlo era irresistibile e solo 13 anni dopo questo divieto cadde per mano del sultano Solimano il Magnifico, con il Gran Mufti Ebussuud Efendi che emise una fatwā per consentire il consumo di caffè.

Fu bandito anche a Il Cairo nel 1532, divieto a cui la popolazione reagì saccheggiando magazzini e caffetterie, rubando ogni singolo chicco di caffè presente in città. Anche a papa Clemente VIII fu suggerito di proibirlo, accusarono il caffè di essere la bevanda del demonio, ma il papa volle assaggiarlo ed estasiato lo benedisse dichiarandolo bevanda cristiana.

Grandi amori o ineguagliabili prove d’odio, il caffè ha superato il tempo e lo spazio mantenendo integro il suo fascino.

Le prime testimonianze si ritrovano in un libro del XVI secolo, il manoscritto di Abd Al-Qadir al-Jaziri, che ne traccia le origini e l’evoluzione.

E anche la storia europea della bevanda che salvò Maometto è un susseguirsi di amore e odio. Il re Gustavo III di Svezia condannò a morte due ladri, per somministrazione di caffè. Naturalmente la condanna non andò a buon fine, nonostante le innumerevoli e ripetute bevute, i due delinquenti non morirono ma vissero felici e contenti sino agli 83 anni.

Bach lo amava al pari di Beethoven e come lui non poteva farne a meno, una sorta di venerazione che lo portò a comporre la cantata del caffè, la Kaffeecantate, eseguita a Lipsia tra il 1732 e il 1735.

E poi c’è lui, che l’ha amato come una donna e venerato come una reliquia sacra.

“Queste tradizioni che per me sono la poesia della vita oltre ad occuparmi il tempo mi danno anche una certa serenità di spirito” diceva Eduardo de Filippo, seduto su una sedia su quel balconcino stretto. Sorseggiava il caffè, che preparava con le sue mani, coprendo il becco della caffettiera con un coppitello di carta, così il fumo più denso, il primo, non si disperde. E poi prima dell’acqua versava mezzo cucchiaino di polvere di caffè appena macinata sul fondo, così prende subito sapore e infine, la parte più difficile e importante, il caffè va tostato da sé, stabilire il giusto punto di cottura è un’arte, il chicco deve avere il colore a manto di monaco. Solo così si può arrivare al caffè perfetto. Quello in grado di farti rinascere ed era proprio Eduardo a dirlo “Quando io morirò, tu portami il caffè, e vedrai che io resuscito come Lazzaro”.

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