Infondoalmare

Bunker

Bunker

“Posiziona la testa, ecco, così. Brava!”. “Noi andiamo, mi raccomando non ti muovere!”.  Ho la testa ferma, il capo volto leggermente indietro,

le gambe rilassate e le braccia in alto, in una posizione che Dio solo sa quanto mi fa male. Chiudo gli occhi e lascio che la paura si trasformi in energia positiva immaginando posti incantati ed esotici. I rumori che sento li associo alle onde del mare,  mentre Radio Norba passa tutti i brani del momento e canto senza muovere le labbra. Mi sono ricordata di quella volta che ho esplorato quell’isola della Grecia incontaminata,  credo sia stata una delle vacanze più belle che abbia mai fatto. Sto cercando di distrarmi e manipolare la mia testa affinché non realizzi ancora una volta quello che mi stanno facendo. Sono le 15:00 e sono scesa a meno due, due  piani sotto il piano terra dell’ospedale. Le scale si fanno sempre più cupe e grandi quadri con luci a led creano luminosità. Non so bene cosa dovrò fare, ma ho un cartellino da timbrare e sul monitor compare il mio numero. Un’enorme varco sul soffitto illumina tutta la sala d’attesa ed il volume della radio è un po’ più alto, credo sia fatto apposta per confonderci. Alzo la testa e penso:  “cavolo siamo davvero tanto sotto!”. Prendo il libro che mi sono portata, almeno leggo qualche pagina, accanto a me c’è il signor Giuseppe, che accompagna sua moglie, una signora dolcissima con il turbante, la guardo e penso a qualche mese fa e ai miei tutti colorati, guardo la mia testa attraverso l’unico specchio che c’è ed è stracolma di capelli spettinati, mi sembra assurdo di come sia tutto perfettamente ritornato al suo posto ed a proposito di questo la signora, di cui non ricordo il nome, cerca consigli su come farli crescere. Arriva il mio turno, entro in uno spogliatoio e dopo qualche indicazione da parte dei tecnici, vengo portata in un lungo corridoio grigio, lo chiamano micro Bunker, alle mie spalle si chiude la porta e davanti ai miei occhi si presenta un’enorme macchinario ed infondo alla parete maschere di ferro. La stanza ha tantissime telecamere e monitor. C’è un lettino rigido sul quale mi dovrò stendere. Tolgo dalle spalle l’asciugamano, lo posiziono come se lo stessi mettendo su una sabbia bianca e calda, ma so bene che è freddo. Scopro il mio petto, ha una storia tutta nuova da raccontare, non mi piace e penso non piaccia nemmeno a chi ho di fronte. Mi guardano come se fossi Wonder Woman, ma in realtà io mi sento stanca e fragile. Mi spaventa un po’ e non so per quale ragione la mia fantasia immagina di essere nella fabbrica dove lavora Homer Simpson. Mi posiziono, sono in tre e mi parlano, continuano a ripetermi costantemente di non muovermi e mentre lo fanno il lettino si alza e quell’enorme braccio legato alla macchina scende vicino al mio petto. Un grande cerchio grigio d’acciaio con un vetro ed una serie di codici che è lì pronto a trasmettere le mie venticinque radiazioni da quindici minuti l’una per venticinque giorni consecutivi. Quindici lunghi minuti in cui la mia testa deve immaginare qualsiasi cosa ed il mio corpo deve restare immobile nella posizione più scomoda che abbia mai provato nella mia vita. Non è semplice descrivere le emozioni che sovrastano la mia anima, qualcuno ha persino detto che la radioterapia è più leggera e che non dà problemi, certo quel qualcuno non ha nemmeno idea di che cosa sia riceverla sulla propria pelle e sentire quell’odore di carne arrosto costante e quella sensazione di bruciato sulla parte radiata. E no questa non è una guerra ed io non sono una guerriera, è una prova di resistenza ed io sono stata scelta per sopportare tutto questo. Adesso. Tutti i rumori che ho sentito in quei minuti sono finiti ed una voce dal microfono mi dice: “puoi abbassare le braccia”. Finalmente,  penso. Mi sento rintontita come se avessi la febbre, con i brividi e la sola cosa che vorrei fare è tornare a casa e mettermi a letto. Mi rivesto e pian piano torno in me, un po’ più cosciente, un po’ più leggera. Finalmente sono fuori da quell’edificio beige, che vedo da un anno e mezzo quasi ogni giorno e dal quale non vedo l’ora di uscire per sempre. Prendo la mia macchina e torno a casa, lasciando dietro un viale alberato che profuma di primavera e con la mente distratta inizio il conto alla rovescia di questo instancabile viaggio.

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