Visioni d'insieme

Brillante, sfrontato, impossibile rosa

Brillante, sfrontato, impossibile rosa

Daisy Fellowes, unica figlia dell’ereditiera Isabelle-Blanche Singer  aveva uno scopo ben preciso il giorno in cui entrò da Cartier.

Voleva stupire Elsa Schiaparelli, una persona in grado di scioccare il mondo intero con ogni suo gesto. Per farlo acquistò un diamante rosa da 17,47 carati appartenuto a Caterina la Grande, il testa d’ariete.

Quando la incontrò e la Schiaparelli posò gli occhi su quella pietra ne fu incantata “Il colore all’improvviso mi si parò dinanzi agli occhi: impossibile, brillante, sfrontato, bello, pieno di energia, come tutta la luce, tutti gli uccelli e tutti i pesci del mondo insieme, un colore proveniente dalla Cina e dal Perù, non occidentale, un colore “shocking”, puro e non diluito”.

Quel rosa lo riversò in tutto il suo mondo, sui vestiti, sulle scatole dei profumi, su nastri, tulle, scarpe, cartoncini, ovunque, dando vita al rosa shocking.

Una sfumatura irriverente e gioiosa del rosa, simile al fucsia che invece racchiude in sé una storia di amore prima e di stima e ammirazione dopo. 

Leonhart Fuchs, filosofo, medico e solo in seguito botanico, raccolse l’eredità di Ippocrate, Teofrasto, Plinio il vecchio e Avicerra,  dedicando la sua intera vita allo studio delle piante. Ne catalogò moltissime, e chiese a tutti i suoi amici e conoscenti di portargli piante, fiori, foglie da ogni parte del mondo. Riuscì a catalogarne 512 nel suo celeberrimo De Historia stirpium commentario insignes, con tanto di illustrazioni artistiche di radici, gambi, foglie, fiori, semi e frutti. Il suo lavoro fu una pietra miliare e quando il botanico Charles Plumier, scoprì una nuova pianta selvatica sull’isola di Hispaniola, nei Caraibi la chiamò Fuchsia in onore del suo maestro putativo.

Il rosa nelle sue mille sfumature ha tinto la storia. Il rosa spicca in tutto il suo fulgore nel ritratto che Giovanni Boldini fece a Olivia Concha de Fontecilla, Signora in rosa, dipinto durante la prima guerra mondiale. Come scrisse Paul Morand “quella della Belle Epoque fu una società che visse inconsapevolmente su un campo minato” e in quel quadro, nella posa e soprattutto in tutto quel rosa si coglie perfettamente lo stridore di un’epoca in bilico.

Il rosa era un colore senza genere. Un colore che bastava a se stesso, che non amava classificazioni. Era indossato indistintamente da uomini e da donne. Era simbolo di raffinatezza e di amore.

Fu Freud negli anni ’30, con le sue teorie sulla sessualità a creare una separazione netta tra i due sessi nell’utilizzo dei colori.

Prima di lui le cose erano ben differenti.

Il rosa, come è ben noto, è diventato il colore delle donne contrapposto all’azzurro degli uomini solo a partire dagli anni Quaranta. In un articolo del New York Times del 1893 e in uno del Earnshaw Infants’ Département del 1918 si fa riferimento ad una regola di abbigliamento che vede il rosa destinato al bambino e l’azzurro alle bambine.

Perché il rosa, sfumatura più chiara del rosso, era un colore più acceso e forte, quindi più indicato per i maschi. L’azzurro con le sue tenui sfumature venne destinato alle bambine.

Il tenue “rosa dell’aurora” di Umberto Saba, l’aria rosa di Dino Campana di una “estate rosea di più rosea estate” sono il rimando poetico di un colore che infonde calma e richiama ogni forma d’amore. Cennino Cennini nel suo libro Dell’Arte parlando del rosa scrisse “Questo pigmento è fatto dalla più bella e leggera sinopia che si trova e viene mescolato e rimuginato con il bianco di San Giovanni, com’è chiamato a Firenze, e questo bianco è fatto di tiglio completamente bianco e completamente purificato, e quando questi due pigmenti sono stati accuratamente mullati insieme (cioè due parti di cinabro e il terzo bianco), fate dei filoncini come mezzo mezzo di noci e lasciateli. Quando ne hai bisogno, prendi comunque tutto ciò che sembra appropriato e questo pigmento ti dà grande credito se lo usi per dipingere volti, mani e nudi sui muri”. Una poesia per descrivere una mescolanza di pigmenti. 

Ma non esiste solo il rosa tenue e delicato utilizzato da Raffaello per dipingere la sua Madonna con la rosa. C’è anche il rosa Baker-Miller, una tonalità satura che sa di falso, che dà a noia e che fu utilizzata da due ufficiali della marina americana per dipingere le celle dei carcerati per calmarli, per sedare ogni forma di aggressività. Il loro esperimento a quanto pare funzionò. Dopo 156 giorni di quel rosa, nel carcere famoso per i suoi “mastodontici problemi di violenza” non ci fu neanche un solo episodio. Tutte le carceri divennero rosa, ma poi col tempo quella tonalità sparì, dava la nausea a tutti, medici, infermieri, guardie.

C’è poi il rosa nato per sfuggire, per nascondersi pur sotto gli occhi di tutti, come il rosa Mountbatten, una via di mezzo tra un rosa e un grigio, utilizzato dalla marina inglese per dipingere le sue navi, sfuggendo così alla vista dei nemici, soprattutto nei momenti di maggior pericolo di attacco, all’alba e all’imbrunire. 

Ci sono poi tutte le sfumature di rosa di Picasso prima che diventasse cubista, il periodo della gioia e dell’amore felice con la sua Fernande.

Che poi il rosa e tutti i colori sono “tempi di un anelito inquieto, irrisolvibile, vitale, spiegazione umilissima e sovrana dei cosmici perché del mio respiro”, scrisse Alda Merini.

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