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I Fratelli di culla di Alessandro Piva

I Fratelli di culla di Alessandro Piva

Un ragazzo di vent’anni sta per partire in guerra, si ferma davanti alla porta di casa,

prende la cornetta del telefono e compone un numero e poi chiede “Qualcuno mi ha cercato?”.

Prima di andare a morire e svanire nel nulla voleva sapere chi era, se almeno per un attimo fosse stato amato dalla mamma che l’ha messo al mondo, se qualcuno, ogni tanto, pensava ancora a lui. È la storia di uno dei bambini ospiti dell’ex brefotrofio di Bari, raccontata nel documentario pensato, scritto, diretto, montato e prodotto da Alessandro Piva, Fratelli di culla, 62 minuti che raccontano la vita all’interno dell’Opera nazionale maternità e infanzia (Onmi) inaugurata nel 1932, poi diventato istituto provinciale prima infanzia. Oggi struttura in disuso, in via Amendola.

Non è una storia triste, non c’è pietà, compatimento, ma solo il racconto attraverso documenti dell’epoca e interviste ad alcuni fratelli di culla ora adulti. Ci sono le scelte visibili ed invisibili che hanno generato un vuoto in chi le ha subite, ma poi a distanza di anni, la comprensione, per un tempo diverso, situazioni inimmaginabili, costrizioni. In ognuno c’è la ricerca di una madre, mai di un padre, spesso responsabile di quel gesto. “Mia madre l’ho compresa, a mio padre grido vendetta” dice una donna già grande, anche lei da piccola lasciata nel brefotrofio, una costrizione, nessuna scelta per sua madre, l’intervento privo di comprensione dei genitori, la legge, i servizi sociali e l’obbligo di lasciare sua figlia, nata fuori dal matrimonio. Una sottrazione, di amore e appartenenza. “Volevo sapere chi ero, per questo li ho contattati, per conoscere la mia storia, la mia mamma”.

I fratelli di culla di Piva hanno scoperto spesso da grandi di essere stati adottati, molti avevano traccia nella memoria di quel luogo che li ha accolti nei primi anni della loro vita, con amore e gentilezza, non l’amore che avrebbero voluto, un altro, necessario sì, ma altro da sé.

Le immagini scorrono, le bambinaie del centro a Natal,  portavano a casa con loro i bambini, per donargli il sapore della magia, di una casa, della festa, di una famiglia, senza il quale crescere è un po’ più triste.

In quel racconto prende vita un sorriso, la speranza che forse l’amore, qualsiasi tipo di amore, è in grado di proteggere e custodire e far crescere qualcosa di buono. C’è a tratti anche la fiducia, di una cura anche dove un legame è stato spezzato, cancellato.

C’è poi quel filo invisibile che lega tutti loro, che hanno saputo intrecciare le loro vite creando una rete di supporto, legami in una vita in cui il primo, il più importante è stato tagliato. Molti di loro, fanno parte del Comitato nazionale per il diritto alla conoscenza delle origini biologiche, chiedono di conoscere come tutto è iniziato, di chi sono figli. La legge italiana non lo consente, c’è il diritto all’oblio, ma loro continuano a cercare la loro mamma.

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