Visioni d'insieme

La gioiosa ricerca della bellezza di Eva Zeisel

La gioiosa ricerca della bellezza di Eva Zeisel

Le forme si arrotondano in un sinuoso abbraccio, prendono forma, diventano corpi da toccare, amare, custodire.

Eva Zeisel è sempre stata “alla gioiosa ricerca della bellezza”. Quella bellezza che l’ha salvata dall’orrore di una vita in fuga, di una prigionia ingiusta, di un isolamento in una cella per 12 mesi, senza un cielo a cui alzare gli occhi, senza aria per riempire i polmoni, senza un essere umano per non farla sentire sola al mondo.

Eva nasce in un ambiente votato alle scienze e alla cultura, la madre Laura Polanyi Stricker è stata la prima donna a ricevere un dottorato di ricerca all’Università di Budapest, si occupò di pedagogia e psicologia e femminista ante litteram.

La piccola Eva si appropria del capanno nel giardino della casa di famiglia a Budapest, trasformandolo nel suo laboratorio. Realizza piccoli manufatti in ceramica, cotti nel forno che lei stessa realizzò scavando una buca nella terra. A 17 anni entra all’Accademia reale ungherese delle Belle arti come pittrice, senza dimenticare il suo amore per la ceramica. Per quegli oggetti a cui poteva dare forma e anima.

Si fa insegnare i segreti dell’arte di plasmare il mondo con le sue mani dall’ultimo maestro di ceramica delle corporazioni medievali, Jakob Karapancsik.

“Penso con le mani. Progetto cose da toccare, non per un museo. Un pezzo è pronto quando ha la forma di qualcosa da custodire” disse delle sue opere. La manualità era fondamentale, non ha mai avuto un approccio aristocratico all’arte. Fu la prima donna ad iscriversi come operaia alla Gilda ungherese, che raccoglieva tra le sue fila spazzacamini, produttori di forni, piastrellisti, scavatori di pozzi e vasai.

I suoi oggetti pensati per essere utilizzati ruppero l’idea di un’arte lontana da ammirare a debita distanza. Il mondo si innamorò di quel calore. Le sue opere erano ovunque.

Viveva lo splendore decadente della Berlino dei primi anni Trenta. Nel ’32 stanca di quella opulenza, di quell’aria rarefatta fatta per non essere respirata decide di visitare l’Unione Sovietica e ci rimane 5 anni. Ad appena 29 anni diventa direttore artistico del Russian China and Glass Trust, ma il 26 maggio del 1936 viene arrestata con l’accusa di aver complottato per uccidere Stalin. Una calunnia, un pretesto per arrestare una donna ebrea. Fu imprigionata per 16 mesi, 12 li trascorse in isolamento. L’anno dopo fu deportata a Vienna e della sua assurda inspiegabile e dolorosa prigionia, Arthur Koestler, suo amico d’infanzia scrisse Darkness at Noon, un romanzo contro le nefandezze del regime. Riesce a scappare da Vienna subito dopo l’invasione dei nazisti, in fuga, per tutta la vita. Sceglie come tanti l’America, approdo sicuro. Lei e suo marito, il giurista Hans Zeisel, in tasca appena 67 dollari. Gli Stati Uniti li accolgono a braccia aperte, come in quei tempi sapevano fare. Nel 1942 il Moma le commissiona la realizzazione di un set di porcellane e quattro anni dopo le dedica la sua prima mostra personale. Ogni sua opera è un successo, un tripudio di gioia per quell’approccio caldo, fisico, umano all’arte “Il piacere di rendere le cose belle o utili coinvolge i tuoi sentimenti così come il tuo pensiero. Quando il tuo schizzo originale si evolve in un oggetto tangibile e tridimensionale, il tuo cuore segue con ansia il processo del tuo lavoro. E l'amore coinvolto nel realizzarlo viene trasmesso a coloro per i quali l'hai realizzato”.

Negli anni Sessanta e Settanta smette di disegnare, i ricordi tornano ad affollare la sua mente, non ha pace, deve tirare fuori il buio e il vuoto che continuano a crescerle dentro. Si dedica alla storia americana e traccia un parallelismo tra i processi russi, come quello da lei subito e la ribellione degli schiavi di New York del 1741 che portò alla loro deportazione nelle piantagioni dei Caraibi.

Liberata dall’oppressione di un passato di dolore e paura torna a disegnare e a realizzare opere umanizzate “Il mio lavoro è molto corporeo. Non è un guscio, ma un corpo”.

Quasi tutto in lei ha una fisicità, una saliera, una tazza, ripescando sempre nelle sue origini, in quell’infanzia felice in Ungheria, nelle arti popolari che l’avevano ispirata quando ancora era un’adolescente. Elimina gli spigoli, tutto ciò che è netto, tagliato “non creo cose spigolose. Sono una persona più circolare, è il mio carattere…anche l’aria tra le mie mani è rotonda”. Il mondo riconosce il genio che è in lei e le tributa premi, uno dietro l’altro, tra i tanti il Cooper-Hewett National Designe e il Pratt Legends. Negli ultimi istanti di vita, a 105 anni, era ancora intenta a plasmare le sue opere, alla ricerca di un senso di famiglia e protezione, un luogo sicuro come un abbraccio. “Non ho mai voluto fare qualcosa di grottesco. Non ho mai voluto scioccare. Volevo che il mio pubblico fosse felice, gentile”.

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