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La pastasciutta che sa di libertà

La pastasciutta che sa di libertà

Con fierezza e orgoglio oggi, nel giorno della Liberazione dal nazifascismo, mangiamo un piatto di pastasciutta. Bianca, con burro e formaggio.

“Assurda religione gastronomica italiana capace di provocare fiacchezza, pessimismo, inattività e neutralismo” per Tommaso Marinetti che nel suo Manifesto della cucina futurista la mise al bando, come fece il regime fascista che le preferì il riso. La pasta divenne il simbolo di chi combatteva il regime, di chi cercava la libertà perduta.

Ed è per questo che il 25 luglio 1943, quando Mussolini fu destituito e arrestato dal Gran Consiglio del Fascismo, la famiglia Cervi decise di offrire a tutti i compaesani di Campegine un piatto di pastasciutta.

La guerra non era ancora finita, ma Alcide Cervi, sua moglie Genoeffa, le sorelle Diomira e Rina e i sette fratelli Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore videro la luce della speranza dopo 21 anni di regime e tre di conflitto. 

Erano contadini, mancavano i soldi e le materie prime, ma accorsero da tutte le parti per rendere quel pasto un momento di festa collettiva. 

“Prendiamo il formaggio dalla latteria, in conto del burro che Alcide Cervi si impegna a consegnare gratuitamente per un certo tempo quanto basta. La farina l’avevamo in casa, altri contadini l’hanno pure data, e sembrava che dicesse mangiami, ora che il fascismo e la tristizia erano andati a ramengo”  scrisse il padre Alcide nel suo libro “I miei sette figli”.

La povertà aveva stremato il popolo, ma la voglia di tornare insieme, di  festeggiare, di ridere e guardare al futuro portò tutti in piazza. “Facciamo vari quintali di pastasciutta, insieme alle altre famiglie. Le donne si mobilitano nelle case, intorno alle caldaie, c’è un grande assaggiare la cottura, e il bollore suonava come una sinfonia. Ho sentito tanti discorsi sulla fine del fascismo, ma la più bella parlata è stata quella della pastasciutta in bollore”.

Il padre Alcide, contadino e dai principi antifascista dalla nascita guardava i suoi figli “che saltavano e baciavano le putele, e dicevo: beati loro, sono giovani e vivranno in democrazia, vedranno lo Stato del popolo. Io sono vecchio e per me questa è l’ultima domenica”. Ignaro che il futuro l’avrebbe visto lui e non loro. Ma quello era un giorno speciale, l’aria era fresca, pulita, tersa. Furono cucinati 380 chili, conditi solo con burro e formaggio. “Un po’ di pastasciutta si perde per la strada per via delle buche, e i ragazzuoli se la incollano sotto il naso e sui capelli. Uno dice: mettiamoli tutti in fila, per la razione”. 

La libertà è nuova e bella e spazza via le regole del regime. Nessuna razione,  nessuna fila, interviene Nando “Se uno passa due volte è segno che ha fame per due. E allora pastasciutta allo sbrago, finché va. Chi in piedi e chi seduto, il pranzo ha riempito la piazza grande, e tutti fanno onore alla pastasciutta celebrativa”.

Negli anni di guerra la famiglia aveva sfamato tutti, i partigiani ma anche i soldati nemici. E quel 25 luglio a sedersi a tavola, per festeggiare la libertà fu invitato anche un ragazzo con indosso la camicia nera. La libertà è per tutti,  credeva la famiglia Cervi, anche per quelli che non ci credono.

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