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La vera fotografia di Gianni Berengo Gardin

La vera fotografia di Gianni Berengo Gardin

Un gruppo di operai baresi cammina di spalle in quel deserto che attraverso le loro mani diventerà lo stadio San Nicola.

 Fieri, decisi, in ordine sparso percorrono quel luogo in divenire, uno scatto di Gianni Berengo Gardin che al sociologo Domenico De Masi ricorda una versione contemporanea del Quarto Stato di Pellizza da Volpeda.

 “Il mio interesse vero è stato sempre l’Italia in tutti i suoi aspetti, fin dagli inizi”. La percorre tutta dalle Alpi alla Sicilia, fotografa ovunque e chiunque gli appaia reale, vero. Uomini e donne al lavoro in una catena di montaggio, tra i pascoli con le pecore del gregge, seduti ad un tavolo per una partita a carte, in protesta contro il potere autoritario, nell’intreccio amoroso di un abbraccio.

Fotografa la forza, la dedizione, l’amore, la pazienza, la rabbia, l’orgoglio che ha permesso a quegli italiani di fare l’Italia.

 “La lezione di Adriano Olivetti è stata straordinaria in tutti i sensi. Ma soprattutto, fotografando in fabbrica ho scoperto gli operai che a Venezia non avevo mai incontrato, ed è cominciata la mia formazione politica”.

Quella formazione che lo porta a girare l’Italia intera per documentare un mondo sommerso e dimenticato, quel mondo che costruiva e sfamava il Paese.

Va nelle fabbriche dove “non fotografavo mai il prodotto finito ma le linee di montaggio, le storie dei lavoratori, la storia quotidiana di quegli operai che mi hanno insegnato molto”. Percorre i cancelli dell’Ansaldo, della Pirelli, della Magneti Marelli e si mette in un angolo e guarda, fotografa, rende eterni. Va nei campi, in Veneto e immortala le contadine al lavoro, ripiegate su se stesse, le mani nella terra che dona i suoi frutti, gli alberi alti che svettano come custodi, la foschia che cancella ogni certezza in quel futuro piegato alla volubilità del tempo.

Nel ’60 è in Friuli alle spalle di una contadina ricurva su se stessa che porta sulle spalle una fascina di legno.

Nel ’73 quando un postino era un ricuciture di tempo e di spazio, è a Luzzara, e scatta una fotografia bellissima, con un uomo in bici tra le campagne e la sua borsa di lettere da consegnare.

 Quando l’Italia era un popolo di emigranti, Berengo Gardin era tra loro, e documentava quella vita che oggi ci ostiniamo a dimenticare. 

 Li fotografa a Milano alla stazione, in attesa del treno che li riporterà a casa o mentre percorrono una strada nella periferia della città, marito e moglie, uno accanto all’altra. La distanza che li separa fisicamente è solo apparente, uniti dalla fatica, dalla rinuncia e dalla consapevolezza, oggi perduta, di essere chiamati a costruire qualcosa. Che fosse una famiglia, un futuro, una identità.

“Quando ho scoperto la cultura operaia e contadina, così misconosciuta da tutti. Una cultura straordinaria”. Quella cultura che non aveva mai incontrato nella opulenta e decadente Venezia, dove una dama volta lo sguardo verso il finestrino dell’auto paga di sé con i suoi cinque giri di perle al collo.

Va nei manicomi con Franco Basaglia, mette a fuoco quegli invisibili, sbiaditi da una società che per lo più li cancella. E scatta, immortala le condizioni in cui erano costretti, privi di rabbia, di odio, di gioia, svuotati di ogni emozione vitale. Berengo Gardin fotografa, Basaglia scrive, il risultato sarà “Morire di classe” il libro che contribuì con la sua forza e dirompenza all’approvazione della legge 180 che cancellò i manicomi.

Fotografa le emozioni, i dolori, la fatica ma anche l’amore.

Ruba attimi ad una intimità che si svela con dolcezza.

Fotografa una coppia di giovani, a Milano, stesa per strada su un marciapiede, uno sull’altra stretti in un abbraccio che li protegge dalla pioggia che li rende immuni allo sguardo dei passanti.

Dal finestrino di un treno, a Roma, immortala una coppia che si saluta abbracciandosi, lei con i suoi lunghi capelli neri e una gonna a pois, lui ricurvo su di lei, con il viso sulla sua spalla. Nella Londra degli anni Settanta, sempre su un treno, lei deve partire, lui sale un attimo e la bacia, ultimo saluto prima della partenza e infine a Venezia, due innamorati che si poggiano uno sulla fronte dell’altra e sorridono complici e custodi di quell’amore tutto loro.

Fotografa ogni attimo di vita, vera come le sue fotografie, tutte autenticate con un timbro verde con su impressa la dicitura “vera fotografia”.

Fotografa il broncio di un bambino in una piazza San Marco allagata tra le braccia del fratello più grande. Fotografa quella dolce vita, ingrediente di una ricetta tutta italiana, sulla spiaggia di Malamocco, lei e lui che ballano, un grammofono sulla sabbia che libera la musica e un gruppo di amici stesi intorno a loro.

E tutto ciò non è altro che immortalare bellezza. Di quando lui con la sua bici in mano e lei accanto al passeggino si fermano per ammirare il mare.

 

 

Ottantacinque foto di Gianni Berengo Gardin sono in mostra al castello aragonese di Otranto sino al 20 novembre.

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