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Marcella Pedone, l’obiettivo del reale

Marcella Pedone, l’obiettivo del reale

L’intera vita di bimbi e uomini trascorsa nei cunicoli delle zolfare. Familiari come case le cave. La paura del buio della notte. 

Non il nauseabondo odore di polvere e umidità, non la polvere che soffocava il respiro, non le esplosioni, non il rischio di morire sotto le ceneri e la pietra. Di quei bambini e di quegli uomini che scoprirono la luna, scrisse anche Pirandello, ricordando il lavoro del padre.

Ma Marcella Pedone fece di più. In quelle cave di zolfo, lei donna di inizio Novecento ci è andata per davvero. Non ha scritto di racconti tramandati di padre in figlio, ma ha camminato senza respiro tra quei cunicoli, insieme a uomini e bambini stremati dalla fatica. 

Marcella Pedone è una delle prime fotografe italiane. Una pioniera. Un’anticonformista. Una ricercatrice. Una instancabile lavoratrice. Un occhio sempre attento agli ultimi. Agli invisibili.

Ha girato l’Italia dei piccoli comuni, del mare e della montagna, sempre con la sua auto verde con la roulotte al seguito che le permetteva di fermarsi dove il suo occhio le diceva che c’era qualcosa da immortalare in uno scatto.

Ha fotografato l’Italia minore, quella dei lavoratori e delle donne. Dalla mattanza del tonno ai trabucchi sul Gargano, le cave di marmo in Toscana, la vendemmia ad Asti, l’essiccazione del grano in Lombardia, il mercato delle cipolle di Isernia, il pane portato al forno da un ragazzo lucano. Le vedove bianche di inizio Novecento e la loro vita in attesa dei mariti emigrati.

Si è alzata all’alba con le mondine di Pavia, non donne ma poco più che bambine, con l’acqua alle ginocchia, i piedi scalzi, attente a non farsi raspare e tagliare dalle spighe del riso, ad estirpare erbacce per dieci, dodici ore al giorno, tra bisce e zanzare.

Ha fotografato un’Italia che lavorava e costruiva il Paese nel silenzio assordante di chi mostrava solo un’immagine pubblica da dolce vita del Bel Paese. 

“Sono stata gentilmente relegata in periferia. Ma lì, così pochi lo sapevano, c’era la bellezza ad attendere gli esclusi” disse un tempo.

Quella bellezza fatta di riti collettivi, tradizioni popolari, di tutto ciò che creava un senso di identità in un territorio.

Nata a Roma nel 1919 Marcella Pedone è ancora oggi a 101 anni, una anticonformista, una donna che si è battuta contro gli stereotipi, nonostante abbia trascorso gran parte delle vita a sentirsi dire che era brava, subito dopo aver visto scivolare un lavoro verso un interlocutore maschile.

Non nasce con il sogno di diventare una fotografa, studia al conservatorio a Milano, poi lingue a Venezia, vola in Libano per fare la maestra. Ma è solo co un viaggio a Norimberga che decide che sarebbe diventata una fotografa. Acquista la sua prima macchina fotografica, una Rolleiflex e per farlo lavora per un mese come lavapiatti. Compra sempre le macchine migliori anche se questo le costa tanto lavoro e infinite restrizioni, perché solo con l’attrezzatura migliore avrebbe scattato la foto perfetta. E’ sempre stata una perfezionista, studiava i luoghi in cui voleva andare, faceva sopralluoghi, parlava con la gente, si confondeva con gli abitanti e ne assimilava usi e costumi. Solo dopo aver capito, scattava.

In Germania capirono subito il potere di quelle immagini, biografia visiva dell’Italia del Novecento.  Le università popolari serali tedesche, le Volkshochschlen, la invitarono a tenere un ciclo di incontri sull’Italia. Ne realizza due, uno sulle tradizioni del mare l’altro su quelle della montagna. Con un magnetofono Grundig registra suoni e canti popolari per unire alla vista anche l’udito. E ridare due dei cinque sensi a quei momenti di vita faticosa, dignitosa e semplice. Torna in Italia e la Ferrania le affida la pellicola cinematografica 16mm invertibile a colori. Le danno carta bianca e fondi e lei gira l’Italia e fotografa e con la sua cinepresa Bell&Howell documenta. Diventa così una delle prime documentariste europee.

Quando compie 99 anni decide di regalare il suo immenso patrimonio fotografico, 170mila scatti e le sue macchine fotografiche (Rolleiflex, hasselblad, Mamya, Nikon) al Museo della Scienza di Milano. Centosettantamila tasselli di un Paese che non esiste più.

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