Ancora ragazzino in Iran davanti ad una piccola tv via cavo guardava i film di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.
L’amore per il cinema lievita come un pane caldo e Manoocher Deghati, fotoreporter franco-iraniano, inizia a nutrirsi del neorealismo italiano: De Sica, Sordi, Pasolini, Fellini. Finisce il liceo e con uno zaino in spalla prende un treno che dopo otto giorni lo porta a Roma alla scuola di cinema.
La dolce vita non assopisce i suoi sensi e quando nel ’78 scoppia la rivoluzione iraniana sente l’urgenza di tornare nel suo Paese, portando con sé una macchina fotografica, un obiettivo e due rullini. Racconta ciò che il regime vorrebbe non venga visto all’estero e così come lui stesso ha raccontato in una intervista “hanno iniziato a restringermi”. La prigione, le angherie, i soprusi, la violenza. Poi vola a Parigi ma quasi subito decide di non voler essere quel tipo di fotografo che raggiunge il set scatta qualche rullino e torna comodamente a casa sua. Lui voleva vivere nei luoghi che voleva fotografare e così è stato. Si è trasferito a Il Cairo, ha testimoniato la guerra del Golfo, e poi la Palestina, in Afghanistan dopo l’attacco alle Torri Gemelle di New York per la caduta dei talebani e le donne di Kabul, ancora la rivoluzione egiziana e poi Libia, Siria, Yemen, la primavera araba. Alla fine sceglie la Puglia, dove attualmente vive con sua moglie, per insegnare ad altri quello che lui che ha fatto per una intera vita, essere testimone e partecipe dell’umanità.
Uno sguardo sul reale, è questo la fotografia?
La fotografia è sempre stata reale. È fatta soprattutto dai fotogiornalisti che attraverso questo strumento parlano con il mondo. Non puoi fare trucchi, devi essere diretto, il tuo messaggio deve essere chiaro. La fotografia come linguaggio universale può passare facilmente. Quindi sì, la fotografia è uno sguardo sul reale perché cattura la realtà.
Qual è il suo sguardo sul mondo attuale?
Viviamo in un periodo un po’ nero della storia umana, credo, dovunque si guardi. La guerra in Ucraina, le manifestazioni in Iran dove uccidono i giovani per la strada, il Covid. Spero che passeremo oltre questo periodo nero e rivedremo la luce un po’ più chiara.
In periodi in cui non si dicono cose urgenti e fondamentali, la fotografia può aiutare a raccontare ciò che le parole non riescono più a dire?
Certo, oggigiorno con i cellulari tutti fanno fotografie e questo sta aiutando a dare una maggiore conoscenza del mondo. Per me la globalizzazione è questo, la rivoluzione di internet sta avvicinando le persone. Tutto ciò che succede in qualsiasi angolo del mondo, è subito vista da miliardi di persone e questo è molto importante.
La fotografia quindi diventa attraverso internet democrazia?
Certamente. Prima noi fotogiornalisti per inviare una foto ci impiegavamo giorni, mancava l’immediatezza tra ciò che accadeva e il momento in cui diventata pubblica attraverso la pubblicazione degli scatti che venivano visti da qualche migliaio di persone. Oggi no, ogni scatto è immediato e potenzialmente può essere visto da miliardi di persone e questo avrà un effetto positivo sulla vita delle persone, per me.